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Questo reportage, ancora in progress, è uno studio estetico e formale sull'edilizia popolare nei quartieri industriali e post-industriali della periferia genovese.

 

L'edilizia residenziale pubblica (o edilizia sociale, dall'inglese social housing) è un'espressione con la quale ci si riferisce comunemente a quelle tipologie di operazioni edilizie che vedono l'attivazione della pubblica amministrazione statale, a livello nazionale e/o locale, per offrire ai consociati degli immobili abitativi in proprietà, in locazione o in superficie; è chiamata anche edilizia popolare e gli alloggi relativi sono anche detti case popolari.

L'idea alla base dell'edilizia popolare a Genova è quella di trasformare zone periferiche collinari rimaste inedificate fino al periodo pre-industrializzazione in quartieri destinati alle classi operaie.

Questo genere di soluzione abitativa nasce sulla carta con l'obbiettivo di migliorare la qualità di vita della classe operaia, negli anni 60 principalmente composta da famiglie immigrate dal Sud Italia per lavorare nel circuito industriale e portuale genovese.

All'inizio del boom industriale non erano necessari questi "quartieri dormitorio" perché erano soliti salire a Nord solamente i capi famigli, padri e mariti che alloggiavano in sistemazioni di fortuna.

 

Una volta, poi, che l’industria si è imposta in maniera definitiva nell'economia genovese, gli operai hanno sentito la necessità di riunirsi alle loro famiglie e da qua è nato il bisogno di edificare laddove non era ancora stato costruito per garantire una soluzione abitativa economicamente sostenibile a queste famiglie.

 

La scelta architettonica e progettuale è stata quella di edificare in collina, perché il territorio ligure si è sempre sviluppato su un'unica lunga striscia di terra in linea con il mare e le alture, fino al secondo dopoguerra erano destinate quasi esclusivamente alla piccola agricoltura individuale.

Il piano urbanistico dei quartieri popolari edificati negli anni Settanta, ha previsto l’applicazione di teorie architettoniche funzionali, lineari ma al contempo impersonali, che hanno influito in maniera destabilizzante sulle dinamiche di quartiere e che non hanno aiutato a creare spirito comunitario, tra cittadini già di per sé provenienti da realtà sociali e territoriali eterogenee.

I nuovi quartieri popolari sorti sulle alture genovesi erano sovraffollati ed isolati dal centro vivo e vitale della città, per raggiungere il quale non erano stati previsti collegamenti pubblici facilmente fruibili, dando vita ad una “periferia/ghetto” fatta di cemento, dove la mancanza di infrastrutture, di adeguati spazi verdi e iniziative sociali isolarono di fatto gli abitanti di questi quartieri tagliandoli fuori dal tessuto cittadino.

 

Il fenomeno che si è verificato a Genova, sostanzialmente analogo poi al resto d’Italia e d’Europa, si sviluppa in netto contrasto con le intenzioni alla base di questo progetto di edilizia popolare e democratica, nata agli albori del Novecento dalla necessità di sviluppare un architettura sociale e per tutti, funzionale alle nuove istanze sociali e alla recenti esigenze abitative delle metropoli industriali europee.

Questa necessità di architetti ed intellettuali nasce da un’idea di progresso che vede l’uomo, con i suoi diritti, al centro della scena: secondo Le Corbusier, per esempio, questa nuova architettura moderna avrebbe dovuto basarsi sull’uomo come unità di misura del tutto, elemento che avrebbe dovuto garantire la piena soddisfazione delle esigenze ergonomiche ed estetiche dell'architettura.

Ma quella che in teoria avrebbe dovuto essere una poetica realmente innovativa e socialmente avanguardistica, si rivelò mera utopia nel giro di pochissimo tempo: l’edilizia popolare, infatti, finì per relegare l’uomo ad una una mera dimensione geometrica, un puro standard urbanistico, la necessità di case, ma soprattutto di case a basso, bassissimo costo, spinsero il legislatore ma anche l’architetto ad applicare quei principii di ripetitività e di standardizzazione insiti nell’opera di Le Corbusier, in maniera quasi pedestre.

 

Si costruirono così mostri di cemento su pilotis, con tetti a giardino, completamente slegati dal luogo e dalle popolazioni che vi risiedevano; gli edifici vennero replicati su tutto il territorio italiano senza sostanziali differenze.

Mostri di cemento sorsero in tutta Italia, e dove non era arrivato l’ACP ci pensò la speculazione edilizia.

Questa imperterrita applicazione di standard e principi architettonici finisce col dimenticarsi però di coloro ai quali erano destinati quegli edifici, le persone.

Le persone in difficoltà e a basso reddito vennero catapultate in non luoghi, dove il verde era esiguo e smonotono e dove il grigio del cemento era il colore predominate degli altissimi palazzi; in questi luoghi la venustas architettonica era completamente scomparsa e l’utilitas aveva preso il sopravvento su tutto; questa funzionalità  si concretizzò soprattutto nella ripetitività di moduli a basso costo realizzati  con materiali scadenti, che contribuirono non poco alla scomparsa della “bellezza”.

Ma non fu solo l’architettura a creare questi quartieri “ mostruosi”, al risultato ottenuto contribuirono anche le politiche sociali e l’urbanistica.

L’urbanistica ebbe il demerito di trasformarsi in un mera applicazione degli standard definiti dalla normativa, senza tentare di integrarli in un più ampio e unitario progetto di quartiere che coniugasse funzionalità e identità dei luoghi, e non riuscì a dare un connotazione positiva ai nuovi quartieri che divennero ben presto “quartieri dormitorio”.

Le politiche sociali e la gestione degli enti preposti cambiarono in qualche modo direzione e questi nuovi quartieri divennero semplicemente spazi, dove nascondere ciò che non faceva piacere vedere. I comuni vi collocarono le persone non desiderate presenti in altri luoghi della città; vi trovarono quindi dimora, poveri, delinquenti, immigrata tossicodipendente etc. Questa”nuova politica sociale” ebbe come risultato quello di aggravare  ulteriormente quei problemi sociali che i nuovi quartieri avrebbero dovuto risolvere.

I nuovi abitanti non riconobbero mai quei luoghi come propri, e la bruttezza di questi non li spinse certo ad averne buona cura, vi si sentirono abbandonati e ghettizzati.

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